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Pubblicato: Mercoledì, 10 Giugno 2015 17:13
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L'EDITORIALE
Dopo il voto si dia spazio alle parti sociali per far ripartire il paese
di Stefano Mantegazza
L’economia italiana è ancora stremata da otto anni di recessione, mentre il cambio dell'euro sta diventando meno vantaggioso e il prezzo del petrolio torna a crescere.
Ci dicono che, per accelerare la ripresa, servono “le riforme” (lavoro, scuola, Costituzione, legge elettorale, Fisco, P.A. e altro ancora) e che è diritto-dovere della politica farlo, senza perdere tempo con le parti sociali. Un sistema politico, però, quello italiano, il cui stato di salute non è migliore della sua malandata situazione economica: un italiano su due ha smesso di votare, per paura o per rabbia, per sfiducia o per protesta; inoltre, quasi la metà dei restanti elettori ha ceduto alle lusinghe di vecchi e nuovi populismi, più e meno inquinati da estremismi e intolleranza, ma accomunati dall’essere “comunque contro” qualcosa o qualcuno.
Le riforme, importanti e necessarie, appaiono come un compito troppo impegnativo per una politica così poco legittimata, per una maggioranza retta da convenienza e alchimie parlamentari spesso oblique, per un governo appeso a pochi voti di scarto in Senato e sotto la continua minaccia di faide interne e di vendette trasversali.
Riforme che, finora, sono state terreno di zuffa tra e nei partiti più che argomento di confronto politico; per tutte, la “riforma del lavoro”, la sola più o meno malamente giunta in dirittura d'arrivo, che brilla soprattutto per il maldestro tentativo di annullare l'autonomia delle parti sociali e per l’incapacità di creare lavoro “vero” e abbattere la disoccupazione.
Nel frattempo, mentre la politica si dilania senza costrutto, la finanza più o meno creativa continua a divorare l’economia reale, appropriandosi della poca ricchezza creata dalla pochissima crescita, mentre le strettoie del “rigore di bilancio” soffocano la produzione, senza riuscire a rallentare spesa, tasse e debito.
Insomma, da questa crisi che minaccia di durare ancora a lungo, non si può uscire solo per via politica, tantomeno annunciando riforme sempre di là da venire.
L'Italia non ha bisogno di riforme purchessia ma di tornare al lavoro e all’impresa, alle “vere origini” della ricchezza, della sua equa distribuzione, del benessere collettivo e della sicurezza sociale.
Anni or sono, il Congresso della UIL chiese di “dare più valore al lavoro”; se ci avessero ascoltato, avremmo superato prima e meglio anche questa crisi. Perciò, la vera “riforma delle riforme” è dare fiducia al lavoro e alle imprese, rispettare l’autonomia delle loro rappresentanze, garantire da interferenze politiche la loro libertà contrattuale.
Perché soltanto il reciproco rispetto e la leale collaborazione tra Governo e parti sociali, tra Istituzioni e corpi intermedi può rimettere in sintonia politica, economia e società, restituendo a ciascuna, rispettivamente, la fiducia dei cittadini, la capacità di creare e distribuire equamente la ricchezza, la coesione necessaria a neutralizzare le tossine dell'intolleranza e della demagogia.
Perché solo la libera contrattazione tra le parti può armonizzare i diversi, ma non sempre conflittuali, interessi di lavoratori e imprese, prima tra loro e poi con i più generali interessi del Paese.
Ed è certamente nel generale interesse del paese che la crescita dei consumi spinga quella della produzione, degli investimenti e dell’occupazione; è interesse generale del paese che le parti sociali imprimano all’Italia, impantanata nella stagnazione, la “spinta d'avvio” indispensabile a rimetterne in movimento la capacità di crescere.
Il rinnovo dei contratti collettivi è l’occasione per farlo, per “anticipare” la ripresa con aumenti salariali e miglioramenti normativi che accrescano il potere d’acquisto dei lavoratori e la loro possibilità di consumare “il di più” necessario e sufficiente a riavviare il ciclo produttivo, gli investimenti e la creazione di posti di lavoro stabili e “veramente nuovi”.
Le parti sociali possono costruire tra il lavoro e l'impresa un “ponte negoziale”, lanciato tra due fondamentali piloni: la gestione bilaterale delle tutele sociali e il duplice scambio tra più salario e più flessibilità, tra aumento della produttività e miglioramento del welfare contrattuale.
Un “ponte” che non può posarsi su arcate logorate dal tempo e non in grado di sopportare il peso di maggiori responsabilità della contrattazione collettiva del nuovo secolo.
Il presidente di Confindustria ci ha invitato a ridiscutere struttura e articolazione del sistema contrattuale.
Penso che tutto il sindacato, unitariamente, debba sfidarlo e farlo sul serio, per dare più valore a tutti i lavori; per dare un contratto a ogni lavoratore, a ogni azienda, a ogni territorio; per dare alla crescita del paese le solide fondamenta di un più avanzato equilibrio tra flessibilità, produttività, remunerazione, organizzazione e protezione del lavoro.